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giovedì 5 novembre 2015

MAIS DI CARNE

Zea mays. Che pianta! Anzi, che piante!
Nelle Americhe precolombiane queste erbacee annuali costituivano la base alimentare per molti popoli che le avevano selezionate per millenni in funzione di una moltitudine di ambienti e climi diversi nonché per soddisfare gli usi e i gusti più disparati.
La varietà genetica era enorme e si manifestava in migliaia di tipi differenti di mais.
I nativi americani queste piante le veneravano.
Quando gli scopritori europei assunsero anche nelle Americhe la loro veste esplicita di invasori  dovettero, tra le altre cose, demonizzare il cibo prediletto dai loro nemici. E lo chiamarono granoturco.
Questo perché allora tutto ciò che era sconosciuto e insidioso non poteva che essere turco, emanazione maligna dell'odiato nemico di Costantinopoli.
Ancora nel XIX° secolo tanti irlandesi preferivano la morte per fame piuttosto che accettare di nutrirsi con pane di mais, appunto giallo come lo zolfo.
Ma il granoturco, per ragioni biochimiche sue, restava una pianta portentosa in fatto di produttività. E così, sia in Europa che negli Stati Uniti, per quanto spregevole, divenne una base fondamentale per l'alimentazione popolare.
I nativi americani avevano costruito un ricca cultura culinaria basata sul mais; i civili popoli di origine europea la ridussero  a semplice granoturco: a un alimento monotono ben lontano dai fasti della molteplicità dei suoi luoghi di origine.
Nelle Americhe dei nativi era possibile trovare ciambelle di mais verdi, bianche, blu, rosa; pane salato cotto sottoterra fatto con una varietà di mais completamente bianco; soffici biscotti; pancake psichedelici ottenuti versando vari impasti di mais rossi, verdi, bianchi, gialli, blu e viola su una pietra infuocata...

Le poche forme di granoturco a cui gli europei e gli europei americani ridussero il mais  erano (e ancor più oggi sono) molto produttive in termini di quantità e molto ricche di zucchero in termini di contenuto.
Così come l'economia basata su un solo tipo di patata (delle migliaia di tipi coltivati e usati dai popoli andini) aveva portato alla grande carestia irlandese, così il mais ridotto a granoturco cominciò a produrre le sue vittime: enormi croste purulente a forma di farfalla comparivano sui nasi e sui corpi di chi se ne alimentava, accompagnate da un prurito irresistibile, diarrea acuta e, infine, demenza.
Nell'Italia del Nord soprattutto la polenta, alimento base e per tanti contadini unico, aveva provocato verso la fine del 1800 centinaia di migliaia di questi casi.
Anche negli Stati Uniti l'erba selvatica degli Aztechi, tramandata dai pellerossa, "giustamente sterminati", era imputata del reato di omicidio di massa.
Qualcuno disse -con grande intelligenza profetica visto il nostro presente- che fino a quando la gente continuerà a credere nelle assurdità continuerà a compiere delle atrocità.
Solo a metà del novecento si dimostrò che la grave malattia da granoturco, chiamata "pellagra" era causata dall'assenza nelle sue farine di vitamina B3.
Tuttavia, l'osservazione che fra gli indiani non fossero mai stati riscontrati casi di pellagra avrebbe dovuto spingere i civili europei ad indagare già molto prima.
Gli indiani, prima di ridurre i mais in farina, mettevano i chicchi a bagno per una notte in acqua e calce o in acqua e cenere. Era proprio quel procedimento che rendeva disponibili tutte le vitamine necessarie e faceva del mais un super-alimento.
Ma l'arroganza degli invasori fece sì che non lo prendessero neanche in considerazione. Interessante è  il perché. Perché erano certi che quel procedimento servisse ad ammorbidire i grani e a rendere meno faticosa la loro macinazione, a conferma della natura pigra del popolo indiano.
Veniamo quindi alla vera tragica nemesi storica.
Gli Stati Uniti in particolare hanno finito per fondare tutta la loro economia agricola sul granoturco. E  questo, dal punto di vista della pianta, ma solo della pianta, è un grande successo!
A granoturco vi è coltivata una superficie di oltre 320.000 Km quadrati, più estesa di quella dell'Italia intera. Enormi distese di monocultura ottenuta con fiumi di diserbanti e montagne di concimi  che viene preservata con docce ripetute dei più moderni pesticidi.

La stessa carne rossa la si ottiene alimentando i bovini con questa massa enorme di granoturco sponsorizzato dal governo.
Dove sta il problema? Che esseri erbivori strutturati per brucare erba dei pascoli o comunque masticare fieno sono costretti a ingozzarsi di mangimi fatti di farine.
E perché non muoiano con questa nutrizione inadatta vengono imbottiti di antiacidi, di antibiotici e macellati il prima possibile.
La maggior parte degli antibiotici che vengono prodotti -bisogna saperlo- non va negli ospedali e nelle farmacie ma nei mangimi. D'altronde, la perversione ha raggiunto il suo apice nutrendo gli erbivori con scarti di carne, grassi, penne, farina di ossa ecc. Decisamente contronatura.
L'Industria Chimica da parte sua sa ottenere di tutto dai chicchi del granoturco.
Zuccheri, oli, aminoacidi ramificati e non...
L'HFCS è la sigla che identifica l'onnipresente sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio. Poi c'è l'etanolo (alcol etilico) usato come biocombustibile, gli amidi, e un intero esercito di sostanze utilizzate come additivi alimentari di vario tipo..
In pratica oggi granoturco e soia stanno alla base di ogni tipo di bevanda o cibo.
La nemesi sta proprio qui: la ricca cultura del mais dei popoli arretrati (sterminati) è stata sostituita dalla ridotta e inquinata cultura del granoturco, diventato la base materiale della potente industria che dà da mangiare e da bere al moderno popolo dei vincitori. Così  che la stessa carne rossa di cui questo dispone non può più essere per mille ragioni la carne rossa non cancerogena dei bisonti selvaggi che a milioni popolavano le immense distese erbose di tutta l'area centrale del Nordamerica.




mercoledì 19 agosto 2015

PIANTE CARNIVORE

Carnivore? Piante che addirittura mangiano carne?
Fossero almeno vegetariane o vegane: piante che mangiano solo piante!!
Ironie a parte, è l'atto stesso del mangiare a presentarsi come assurdo, a contraddire la loro natura di piante, loro che, per definizione sono "inorgane", un neologismo che vorrebbe ricordarci  che loro sono loro proprio per la capacità di costruirsi utilizzando soltanto sali minerali, anidride carbonica, acqua e luce solare.
Come fa dunque una pianta ad essere carnivora e purtuttavia a rimanere una pianta?
Intanto c'è da dire che le carnivore non scherzano. Ce ne sono più di 600 specie che mettono in atto mirabili trappole per catturare insetti di vario tipo, ragni e scolopendre o, addirittura, come nel caso di certe specie del genere Nepenthes, anche piccoli mammiferi inclusi topi di una discreta dimensione.



Tutte prede che, ovviamente, digeriscono e, se la loro azione deve avere un senso compiuto, poi assimilano.
Questo comporta che certe loro foglie debbano formare delle sacche che, come  stomaci animali, secernono enzimi digestivi.
Con questi enzimi digestivi decompongono le cellule delle loro vittime nei loro mattoni elementari.
Questi mattoni bisogna poi che vengano assimilati. Cioè a dire assorbiti, distribuiti nell'intero corpo della pianta in modo che le cellule che lo costituiscono possano usarli per assemblare se stesse.
Il significato è semplice: siamo tutti fatti degli stessi mattoni materiali soltanto messi insieme diversamente.
Si sostiene, e a ragione, che tutte queste specie vegetali si siano trasformate in carnivore come adattamento alla povertà dei suoli su cui, con una tale soluzione, potevano ugualmente vivere.
Tuttavia anche molte specie decisamente non carnivore ci riservano sorprese.
Per esempio le piante di patata o di tabacco.
Le loro foglie secernono sostanze appiccicose o velenose per cui è abbastanza frequente trovarci sopra dei piccoli insetti morti.
Quelli che cadono al suolo si decompongono rilasciando l'azoto che serve alla pianta per integrare la propria dieta.
Quelli che rimangono sulle foglie vengono a loro volta decomposti dai batteri che ci vivono e la pianta può anche lì assorbire i loro prodotti di scarto anch'essi ricchi di azoto.
I botanici le hanno definite "protocarnivore" alludendo ad uno stadio più generico che precede le specializzazioni delle vere e proprie carnivore.
In queste ultime la varietà delle forme e delle modalità di "caccia" è davvero stupefacente.
I biosistemi non hanno limiti di inventiva.
E queste piante che hanno foglie verdi, mostrano i loro bei fiori sgargianti ma al tempo stesso catturano e mangiano, la dicono lunga sui limiti della nostra mente quando crea barriere insormontabili e pone quegli out out tipici delle Verità rivelate.
Piante o animali, animali (senz'anima) o esseri umani (in particolare cristiani) certamente con anima.

giovedì 28 maggio 2015

EQUISETUM

La parola Equisetum serve per raggruppare mentalmente un certo numero di entità biologiche simili chiamate popolarmente Code di cavallo.
Si tratta in tutto di una quindicina di specie vegetali i cui individui, tutti amanti dei terreni umidi e della luce intensa, si differenziano per varie caratteristiche pur mantenendo uno schema unitario di struttura.
Una decina di queste specie, tutte perenni, si trovano anche in Italia. Oltre alla più nota, ovvero l'arvense, si possono trovare la pratense, la fluviatile, la palustre, la bagotense, la variegatum, la giganteum, la hyemale ecc.
Cos'hanno nel loro insieme di speciale?
Anzitutto il fatto di essere dei fossili viventi.
Non hanno fiori e quindi non hanno bisogno di attrarre, di mettersi in mostra, di sedurre esibendo fogge particolari, colori ammaglianti, profumi adescanti.
Producono spore che consegnano all'acqua o al vento. Sono al tempo stesso strutture ad architettura semplice, ripetitiva, vistosamente modulare e i loro sistemi di conduzione interna non sono dei più efficienti
                                         arvense steli fertili
                                              arvense  steli sterili

La domanda interessante da farsi è come mai in una presunta corsa delle forme viventi verso la perfezione si siano conservate strutture così arcaiche, vecchie di almeno trecento milioni di anni.
Certo è sensato pensare che, benché più semplici delle moderne piante a fiori, questi esseri abbiano un genoma particolarmente indovinato. Ma la risposta alla domanda resta comunque un'altra: loro esistono perché  fra le forme viventi non esiste nessuna corsa verso la perfezione.
Ricordate sempre la piramide della vita.
La base è formata da esseri unicellulari e batteri e virus sono ancora a formare questa base non da milioni ma da miliardi di anni.
I viventi si possono trasformare, alcuni di loro lo fanno, ma non perché c'è una direzione da seguire o tantomeno un Direttore cui obbedire.
Le specie parassite, per esempio, incarnano un regresso, altre, sempre per esempio, nelle loro vicissitudini, si trovano nelle condizioni di cambiare o di soccombere. Altre ancora, se possono restare come sono,ci restano.
Le "Code di cavallo" sono rimaste. La loro complessità è già stupefacente ma lo è meno di quella delle rose, delle viti o dei trifogli.
Nelle foreste tropicali raggiungono vari metri d'altezza ma, anche nelle migliori condizioni, non potranno mai competere con l'imponenza di una quercia.
Comunque coesistono con noi, questo è un fatto, e nessuno può dire se, per quanto più semplici, dureranno o no più di noi.
Un altro fatto è che, intanto che coesistono, noi le adoperiamo.
Soprattutto la loro specie più comune, che è l'arvense.
Questa, a primavera, dalle sue gemme sotterranee fa spuntare steli fertili sporiferi ma non fotosintetici e steli sterili non sporiferi ma fotosintetici che si caratterizzano per l'elevato contenuto di Silicio, presente sia in forma chimica solubile che insolubile. Quest'ultima è forse uno dei segreti della sopravvivenza della specie dato che in così alta quantità usurerebbe presto i denti di chi si provasse a mangiarla. Un altro effetto di questo silicio insolubile è la capacità che conferisce alla pianta di riflettere la luce solare in eccesso.
Al Silicio solubile e a tutte le altre sostanze che contiene (e che in generale contengono tutte le Code di cavallo) si deve invece l'attività rimineralizzante della pianta.
In pratica questa favorisce la ricalcificazione delle ossa accelerandone i tempi,
ragione per cui se ne consiglia l'impiego in gravidanza, nella menopausa e più in generale nell'osteoporosi.
Il Silicio è presente in particolar modo nel tessuto aortico e nei tendini, organi le cui fibre elastiche perdono di efficienza con l'invecchiamento e, al tempo stesso, con la perdita di Silicio. Da qui l'impiego dell'equiseto per rallentare questo processo di degrado.
L'equiseto è diuretico. Fonti autorevoli dicono che l'infuso ha azione diuretica potente ma minore azione rimineralizzante; il decotto, al contrario, ha minore azione diuretica e maggiore azione rimineralizzante.
Gli Equiseti, alcuni in particolare contengono un enzima, la Tiaminasi che è in grado di distruggere la vitamina B (Tiamina), ma alcol e quindi tinture, temperature di 100 °C e quindi infusi e decotti neutralizzano l'enzima.
Si può ottenere dagli Equiseti anche un miglioramento dell'elasticità cutanea. Da qui il loro uso in cosmetologia per la prevenzione delle rughe e più in generale dell'invecchiamento della pelle.